Piemont cioccolato e Carlo Galfione: scegliere col cuore
PIEMONT CIOCCOLATO E CARLO GALFIONE: SCEGLIERE COL CUORE | ARTFOREXCELLENCE
Fare impresa e fare arte sono ‘scelte di cuore’.
Alessandro Fioraso di Piemont Cioccolato e Carlo Galfione, in questa intervista, ci raccontano il percorso che hanno seguito nelle rispettive imprese.
Art For Excellence: Chi è Piemont Cioccolato?
Alessandro Fioraso: La Piemont è una piccola azienda artigianale a tipica conduzione familiare, fortemente radicata sul territorio e legata alla tradizione cioccolatiera torinese. Infatti, sia il nostro nome, Piemont, sia il nostro logo, che è la Mole Antonelliana, simbolo di Torino, richiamano l’identità dei luoghi e il senso di appartenenza alla città, riconosciuta capitale del cioccolato. Durante i primi anni della nostra storia, il prodotto che ci ha caratterizzato maggiormente, che ha permesso di far conoscere il nostro nome a livello locale e di crescere come azienda, è stato il Cri Cri.
Il Cri-cri è un prodotto di nicchia della tradizione natalizia, non ci sono quindi dei consumi esorbitanti. Sono per lo più concentrati in Piemonte e un po’ nel resto d’Italia. Solo adesso stiamo iniziando a varcare il confine, con qualche vendita in Inghilterra, negli Usa, ma per il momento sono nicchie di mercato, che magari avranno sviluppi futuri, però questo non possiamo darlo per certo.
AFE: Riesce a descrivere l’azienda con una parola?
AF: Un sostantivo unico è un po’ difficile: dovendo scegliere, direi volontà e coerenza. Abbiamo scelto di essere coerenti con noi stessi, con la nostra filosofia. Abbiamo voluto rimanere di piccole dimensioni perché ci sentiamo meglio in questa condizione, non c’è in noi l’idea di fare gli industriali, anche se l’opportunità c’è stata. Ci piace l’idea della famiglia, dell’azienda piccola che vuole fare sempre meglio.
AFE: C’è un episodio che fa capire come avete iniziato?
AF: Noi siamo partiti da zero. L’amico di famiglia che ci ha venduto l’azienda ci ha dato una mano, offrendoci la possibilità di pagarlo lavorando; non ha voluto impegni, se non l’ipoteca sulla casa di mio papà.
A quei tempi lavoravamo anche la sera, non c’erano orari, e quando confezionavamo le praline, fra noi fratelli ci dicevamo: “il Cri-cri Piemunt l’è il più bun dal mund”. Questo perché c’era la consapevolezza di dare fare qualcosa cosa che avesse una forza. Questa è una scena che ho ben chiara nella testa, in un’epoca in cui facevamo ancora tutto a mano. Ma l’immagine più bella è quella di quando eravamo bambini e il vecchio proprietario della Piemont ci portava i Cri-cri a casa. Mia madre li appendeva all’albero di Natale e noi, prima ancora che arrivassero le feste, avevamo lasciato appese solo le cartine.
AFE: Come si vede tra dieci anni?
AF: Me l’immagino come una bomboniera, qualcosa di bello che rimanga caratteristico, una realtà viva e piena di slancio, che continua a fare quello che sta facendo ma al tempo stesso rinnovandosi. Certamente ci guiderà l’idea di mantenere i principi a cui ci ispiriamo: la qualità, la scelta delle materie prime. Il nostro intento è far bene per fare del bene anche alla gente, perché oggi il cibo è diventato quasi una cura.
AFE: Cosa vi ha convinto a fare parte di Art For Excellence?
AF: C’è una ragione precisa: noi siamo una famiglia di artisti. Mio zio è scultore, mio padre è pittore e lo sono io stesso, c’è chi suona strumenti musicali… C’è sempre stata quindi questa apertura verso l’arte. Quello che ci ha stimolato è stata l’idea di coniugare l’azienda a qualcosa che fosse affine a noi.
Ho incontrato anche l’artista, mi ha fatto un’ottima impressione, ma non so ancora cosa abbia sviluppato come opera. Ho visto i suoi lavori, sono piaciuti a tutti noi, tanto che la nostra è stata una scelta corale.
AFE: Come hai scelto il tuo linguaggio, orientandoti sulla pittura a olio?
Carlo Galfione: È stato quasi un approdo naturale. Negli anni in cui io portavo a termine l’Accademia, Torino stava vivendo un momento di grande vivacità artistica. Le prime mostre di giovani pittori – poi riconosciuti come “Medialisti” – avevano sdoganato un nuovo modo di dipingere. In quel brodo di culture che erano gli anni a cavallo tra gli ’80 e i ‘90 era sorto un movimento che, prendendo le distanze dall’arte concettuale, dava dignità a un linguaggio sensibile alla cultura pop giovanile e metropolitana. La mia è stata quindi una scelta di cuore, folgorato dall’idea di poter fare pittura utilizzando istanze che sentivamo vicine.
AFE: Qual è la sensazione che vorresti provasse uno spettatore davanti a una tua opera?
CG: Che ci sia qualcosa che non funziona. Nelle mie opere è presente una forte riflessione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, utilizzo un’iconografia classica con continui rimandi tra una sfera culturale e l’altra. Lo scarto tra questi due elementi è ciò che mi interessa maggiormente, il suo effetto straniante per lo spettatore. Quello che voglio suggerire è uno sbaglio, qualcosa che lascia interdetti, come fosse un accordo mancante, stonato. Le immagini che utilizzo, di per sé, non sono nulla di nuovo, ma subentra uno spostamento semantico che risulta – questo è ciò che mi auguro – nuovo. Non è più un pugno nello stomaco, che era invece l’effetto che ricercavo negli anni ’90, bensì una reazione più controllata, ma comunque straniante.
AFE: Per i tuoi dipinti hai scelto di lavorare su tele non canoniche: carte da parati, tessuti a rilievo. Come mai questa scelta?
CG: È una scelta frutto di uno studio approfondito. Nel 2004 ho iniziato a fare i primi esperimenti, ho fatto molta ricerca sul corpo e sulla sua rappresentazione estetica. Sono arrivato ai tessuti perché si sono rivelati un ottimo strumento di banalizzazione estetica. Uso qualcosa che vuole essere oggettivamente bello, pregiato, ma in realtà è terribilmente omologato.
Questo meccanismo si è piano piano evoluto, e ora lo utilizzo come una stratificazione visiva, fornendo più piani di lettura tra primo piano e sfondo. I tessuti si sono presi sempre più spazio, a discapito delle figure, al punto che spesso non è più possibile comprendere cosa sia protagonista, se il tessuto o l’immagine. Il punto è che io metto degli incipit, ma è chi guarda che continua il racconto, io mi limito a fornire degli spunti, questo è l’aspetto che più mi interessa.
AFE: Nel tuo lavoro ci pare di intuire una particolare attenzione ai titoli delle opere. C’è una storia, un racconto dietro ogni quadro?
CG: Assolutamente sì. Molte volte è il titolo che dà il “la” alla narrazione – fittizia – dell’immagine. Mi capita, per esempio, di utilizzare per i miei dipinti personaggi più o meno noti di serie TV o di animazioni, e ritrarli in composizioni classiche, rinascimentali, che di norma attingono a un bacino culturale piuttosto riconoscibile dal pubblico (scene bibliche, personaggi storici…). L’effetto sullo spettatore è straniante. Il titolo, che rimanda all’identità del personaggio ritratto, accentua questo effetto. È un gioco “au rebours”: alla rappresentazione pittorica segue una “volgarizzazione” verso strumenti divulgativi di massa come la televisione o la rete. Un vero corto circuito si scatena poi quando il fruitore si accosta al lavoro e non riconosce il personaggio o la scena raccontata con dovizia di particolari. Non può farlo, perché il protagonista non esiste, così come la storia è inventata. È per me un modo per rendere reale ciò che non lo è.
AFE: Piemont cioccolato unisce l’amore per la tradizione a quello per l’innovazione. È un aspetto che accomuna questa azienda al tuo lavoro?
CG: Sì, certamente. Non può esistere una cosa senza l’altra, non si arriva da nessuna parte se non si sa da dove si è partiti. Altrimenti diventa citazionismo. E in fondo, nel mio lavoro, innovazione è semplicemente guardare una cosa già nota da un altro punto di vista.
AFE: Come hai deciso di interpretare questa azienda? Puoi anticiparci qualcosa?
CG: Per realizzare quest’opera ho voluto fare un lavoro di approfondimento e di documentazione. Ho studiato perché il cioccolato è arrivato a Torino, l’impatto che ha avuto sul tessuto sociale e artigianale. Devo dire che è stato un lavoro molto stimolante, ed è stato divertente trovare la chiave interpretativa. Anche in questo caso ho cercato di applicare due visuali, una pop e una più aulica. Alla fine, quella che ho realizzato è un’opera che mi dà soddisfazione, a prescindere dallo scopo per cui è stata portata a termine.